«L’invenzione dell’immagine sacra» di Emanuela Fogliadini: recensione a cura di Pietro Galignani

pdf_buttonRiceviamo e pubblichiamo la recensione del prof Pietro Galignani riguardanta il libro di Emanuela Fogliadini «L’invenzione dell’immagine sacra. La legittimazione ecclesiale dell’icona al secondo concilio di Nicea», Jaca Book, Milano, 2015

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La letteratura teologica in lingua italiana abbonda di presentazioni artistiche e di descrizioni di immagini sacre, ma è carente di studi sullo statuto teologico di esse. Si sentiva quindi la mancanza un saggio che analizza la lotta iconoclastica. Per il contenuto e il metodo di indagine esso è destinato a promuovere una approfondita discussione sull’argomento.

Questo poi è il terzo lavoro sull’età della crisi iconoclastica (711 – 843 secondo la periodizzazione dell’Ostrogorsky ) e più in generale sul valore religioso dell’icona che l’autrice si è proposta di studiare dal punto di vista storico e teologico. Ne ha pubblicato i risultati presso un editore particolarmente sensibile a questa tematica e abituato a proporre saggi su argomenti che vertono sulla civiltà bizantina e sulla sua teologia.

L’autrice ha già pubblicato sempre con il medesimo editore :

  • Il volto di Cristo. Gli acheropiti del Salvatore nella tradizione dell’Oriente cristiano (2011)
  • L’immagine negata. Il concilio di Hieria e la formalizzazione ecclesiale dell’ iconoclasmo. (2013).

Lasciando sullo sfondo il complesso ed intricato sviluppo politico e sociale di una età particolarmente tormentata, l’autrice, in questo ultimo lavoro, si ripropone di rileggere le fonti storiche che si riferiscono a tutta l’epoca della controversia teologica che ha opposto iconomachi ed iconoduli. Una viva sensibilità ecclesiale e una particolare attenzione al mondo ortodosso le dettano le domande per rileggere le fonti in modo più perspicuo e presentare gli eventi con una nuova visione prospettica. Ne risulta una indagine che presenta una acuta capacità di percepire la testimonianza dei testi che portano l’autrice a sviluppare ed approfondire alcuni contributi acquisiti dalla storiografia del secolo passato e proporre nuove visioni prospettiche. Nel portare a termine la sua indagine è continuamente stimolata da domande sul rapporto attuale tra Cattolicesimo ed Ortodossia. La ricerca è continuamente sostenuta dal desiderio di mettere in rilievo le radici dell’attuale divergenza teologica riguardo le immagini sacre tra Oriente bizantino ( in seguito Ortodosso ) ed Occidente latino perché “oggi, infatti, ci troviamo di fronte a due cristianesimi che pensano e vivono l’arte religiosa in modi assolutamente differenti e, al di là di marginali reciproche contaminazioni, per molti versi distanti.“ (pag. 13).

Servendosi di una metodologia storica che rispetta le fonti ma scava tra le affermazioni teologiche, si propone di presentare gli eventi liberandoli il più possibile dalle parziali ed interessate interpretazioni di testimoni coinvolti in una lotta più che secolare e di storici che vedono gli avvenimenti di questo periodo nell’ottica partigiana della fazione che alla fine ha riportato la vittoria. La ricostruzione cerca di liberare i fatti dall’enfasi retorica che spesso i vincitori in un eccesso di spirito trionfalistico consegnano ai posteri. Con tale atteggiamento metodologico si ripropone di fare emergere meglio il fondamento teologico della sacralità dell’icona che proprio nella controversia messa a tema ha trovato la sua espressione più vigorosa.

Spinta da queste preoccupazioni l’autrice formula la prospettiva metodologica della sua ricerca :

“ La presente indagine si propone di indagare la tematica in oggetto secondo una metodologia che sia capace di fare interagire il dato storico con la speculazione teologica, il punto di vista di iconoclasti e iconofili, le problematiche di ordine politico con le istanze religiose, l’interpretazione cristologica bizantina con il pensiero dottrinale latino, seguendo le fonti senza incanalarle in una lettura precostituita.“ (pag. 18)

Lo scopo principale dunque che autrice vuole ottenere è quello di fare emergere dall’indagine “Quale sia stato il percorso che ha condotto alla trasformazione del senso dell’immagine sacra da illustrazione didascalica, utile alla spiegazione del mistero agli ignoranti, a strumento rivelativo contraddistinto da una intrinseca natura teologico – dogmatica, che troverà la sua tematizzazione definitiva a seguito del «Trionfo dell’Ortodossia».” (pag. 19)

Nell’impossibilità di presentare e discutere tutti i temi analizzati e tutti i giudizi espressi, questa presentazione si limita a discutere due questioni importanti e significative che caratterizzano il volume. Quale sia il valore teologico del sinodo di Hiereia e del sinodo ecumenico di Nicea II e di seguito quali siano le cause e le motivazioni che hanno portato i teologi iconoduli a conferire alle immagini sacre lo statuto teologico che le riconosce come luogo di manifestazione della presenza di ciò che è rappresentato ed annunciato.

Il concilio di Hiereia non si limitò a recepire le tesi preconfezionate di Costantino V, sottolinea con particolare energia l’autrice con una ricostruzione puntuale e ben documenta, ma elaborò in un lavoro libero e collegiale una dottrina teologica ben impostata e coerentemente formulata. Ne risulta perciò un giudizio positivo sull’impostazione metodologica che questo concilio ha messo in opera. Anche con le poche testimonianze che rimangono la ricercatrice nota che il discorso degli iconoclasti risulta convincente ed accattivante proprio per la sua impostazione spiccatamente teoretica e speculativa.

Non solo. Ella afferma anche che il sinodo di Hiereia prese in esame le tesi teologiche dell’imperatore ma le riformulò liberamente dando ad esse una più solida impostazione dottrinale e una migliore espressione teorica capace di imporsi sulle argomentazioni degli iconomachi : “Il rapportarsi di immagine e prototipo fu tema fondamentale della dottrina delle immagini sacre. Se Costantino V tematizzò la consustanzialità tra figura e prototipo deducendo che l’unica immagine plausibile di Cristo è l’Eucaristia, il concilio di Hieria sostenne l’impossibilità della rappresentazione religiosa a causa dell’infinita distanza sussistente tra immagine e prototipo.” (pag.106)

Da ciò si evince chiaramente che il problema delle sacre immagini rimanda alla cristologia di Calcedonia non per avere un solido precedente dottrinale ma per l’intrinseca formulazione della dottrina iconoclasta.

A Calcedonia si chiarisce il rapporto tra persona e natura in modo che Cristo è veramente Dio e insieme veramente uomo. Quindi i vescovi raccolti a Hiereia se da una parte non ritengono che sia accettabile la tesi dell’infinita distanza affrontano però sempre in modo concettuale la difficoltà di chiarire come è possibile che la Persona divina si unisca alla dimensione umana in Cristo, come è possibile cioè l’unione ipostatica. E’ importante notare, per capire l’impostazione teologica espressa a Hiereia, che il problema dell’unione ipostatica a Calcedonia non è affrontato in modo speculativo a ma in modo pratico cioè non secondo le regole della logica scientifica che Aristotele aveva formulato negli Analitici. Detto in altre parole a Calcedonia i Padri si posero il problema di come pensare l’unione in modo che Cristo sia vero Dio e vero uomo come vive e professa la vivente realtà della Chiesa.
Gli iconoclasti, impostando nel modo predetto il loro discorso teologico, diedero un fondamento teoretico all’illiceità della venerazione delle sacre immagini perché, secondo loro, nella raffigurazione iconica viene meno l’equilibrio sancito a Calcedonia che nel suo horos afferma : ἕνα καὶ τὸν αὐτὸν Χριστόν, υἱόν, κύριον, μονογενῆ, ἐν δύο φύσεσιν, ἀσυγχύτως, ἀτρέπτως, ἀδιαιρέτως, ἀχωρίστως γνωριζόμενον. (che è riconosciuto come un solo e medesimo Cristo, figlio, signore, unigenito, in due nature, senza confusione, senza cambiamento, senza divisione, senza separazione.)

La tesi fondamentale degli iconoclasti è dunque questa : Cristo come Dio-uomo non può essere rappresentato poiché la sua divinità non è descrittibile cioè non può essere raffigurata. Se la sua umanità può esserlo essa da sola non offre la figura di Cristo. Ne deriva quindi che se si considera l’immagine della carne di Cristo come sua raffigurazione propria si deve necessariamente ammettere o che la carne può essere separata dalla divinità o che la divinità rimane confusa con l’umanità.

Il problema soggiacente alla controversia, quindi, rimane come si deve pensare il rapporto tra natura divina e natura umana in Cristo. Se esso è affrontato in modo astratto ed intellettualistico è, secondo l’affermazione unanime dei Padri greci, insolubile e porta necessariamente alla illiceità della rappresentazione iconografica e anche alla empietà della venerazione. La soluzione è possibile solo sul terreno della Economia Divina.

La simpatia per la impostazione metodologica degli iconoclasti mette in evidenza una costante metodologica che è presente in tutta la ricerca. Tutta la problematica in questione è analizzata e giudicata con metodo discorsivo e apodittico secondo le caratteristiche tipiche della teologia italiana contemporanea che si è alimentata e si è sviluppata nell’ambito dell’Occidente latino. L’Oriente bizantino ha prevalentemente sviluppato una teologia che Nikos Matsoukas chiama teologia carismatica. “la parola di Dio, ossia l’insegnamento teologico, si fonda sull’esperienza di vita all’interno della comunità storica…..A partire da tale storia e dalla vita carismatica emergono in seguito gli scritti, le memorie e i libri sacri. La teologia è l’espressione e l’interpretazione continua di questa vita, di questa visione di Dio e delle sue opere; ….La teologia non è il risultato di una ricerca intellettuale o di proposizioni assiomatiche, ma della contemplazione ( théa ) nel contesto della stessa vita del corpo ecclesiale.“ ( Nikos Matsoukas, Teologia dogmatica e simbolica ortodossa, Edizioni Dehoniane, Roma, 1996, vol. I Introduzione alla gnoseologia teologica ortodossa, pag. 95 – 96 ).

La teologia dunque descrive i vari aspetti della vita che la Chiesa conduce, realizza, ed esprime vivendo in Cristo. L’orizzonte ermeneutico è quindi la Divina Economia o, altrimenti detto, la storia della salvezza e non la dimensione speculativa che rimane estranea all’interesse dei Padri e dei loro successori.

In sintetica conclusione i teologi iconoclasti al sinodo di Hiereia fecero volutamente e coscientemente riferimento alla cristologia di Calcedonia che volevano difendere e chiarire ma argomentarono con una metodologia estranea alla preoccupazione dei Padri di Calcedonia. E’, sì, da una parte importante sottolineare, come fa giustamente l’autrice, che i vescovi riuniti a Hiereia non subirono una imposizione proveniente dal sacro palazzo e che la precisa formulazione della loro posizione fu il libero frutto di una sintesi tra le proposte dell’imperatore Costantino V e la rielaborazione dell’assemblea. Ma è ancora più importante indicare che l’impostazione metodologica rimase identica. I vescovi furono attratti da una speculazione rivestita di spessore dottrinale e furono affascinati da una ben organizzata espressione della stessa elaborazione teologica. E’ perciò importante notare che, secondo la Fogliadini, l’opposizione teologica degli iconoduli, che si espresse negli scritti di Germano di Costantinopoli e di Giovanni di Damasco e sfociò nel sinodo di Nicea II, “scontò indubbiamente rispetto alla teologia iconoclasta, una inferiorità teoretica che si tradusse in un atteggiamento di sfida e disprezzo verso il concilio di Hieria ….” (pag. 91).

I temi principali che costituirono la caratteristica della teologia iconodula, ma che non raggiunsero il livello speculativo degli antagonisti, furono, sempre secondo l’autrice, “l’antica consuetudine delle icone“, “il culto delle immagini sacre“, l’accenno alla “esistenza delle straordinarie immagini acheropite trasmesse da Cristo stesso“, la denuncia dello “inevitabile fraintendimento di un pensiero teologico decontestualizzato“ operato dall’assemblea iconoclasta, “l’amplificazione enfatica del ruolo degli imperatori nella controversia,” (pag. 95 e passim nel capitolo).

Se le affermazioni dei difensori delle immagini sono deboli da un punto di vista squisitamente teoretico e speculativo le tesi iconodule ebbero però, soprattutto nella seconda fase della lotta, una grande capacità di convincere, come già detto, ambiti sempre più vasti della cristianità orientale perché facevano volutamente riferimento alla “tradizione” vissuta. Presentando questa linea di difesa la corrente degli iconoduli, se si trovò in difficoltà nel sostenere la disputa dal punto di vista puramente dottrinale, ebbe però una forte capacità di presa sui fedeli ergendosi a difensore della vita e della prassi religiosa che veniva solennemente riaffermata, precisata, interpretata ed autenticata secondo il criterio della inalterabile continuità della vita in Cristo. Fu proprio da un approfondimento provocato dalla controversia stessa che dentro la vita stessa della Chiesa tutta immersa nella vita di Cristo emerse il nuovo significato teologico e liturgico dell’icona. Questo evento segnò una nuova fioritura della religiosità bizantina come si preciserà nel prosieguo.

Il richiamo all’ antica consuetudine delle icone, che sembra un argomento molto debole ed anche poco credibile, è riaffermato nella sua pratica validità dalle più recenti ricerche sull’argomento.

E’ indubitabile che l’uso e la reverente attenzione per le immagini sacre fu nella Chiesa prima di tutto una prassi. “Se i cristiani nei primi due secoli rimangono invisibili nei reperti archeologici, i motivi di questa loro non-visibilità non hanno nulla a che vedere con una loro avversione per principio all’arte figurativa o con un loro atteggiamento di tipo spiritualista; la verità, secondo Corby Finney, è semplice e di ordine pratico ; per esistere la cultura materiale ha bisogno di danaro e di immobili. Così lo spartiacque tra l presenza assenza di una cultura materiale cristiana è l’acquisto di terreni, in particolare per uso di sepolture“ ( M. G. Muzj, Culto cristiano e iconografia monumentale della chiesa indivisa “ Pontificia Università Gregoriana, Roma, 2010, pag. 69 ). Perciò, prosegue sempre la Muzj, la prima espressione figurativa cristiana nacque da necessità concrete e si è evoluta gradualmente da un sostrato romano come mostrano decorazioni cristiane nella catacomba di Callisto. Esse indicano che i cristiani inizialmente adottarono forme preesistenti adattandole alle nuove esperienze e selezionandole con la loro nuova sensibilità religiosa. Ne deriva innanzitutto che viene inverata scientificamente la certezza, che gli iconoduli avevano, che le immagini accompagnano fin dai primi tempi la vita ed il culto della Chiesa.

Le tesi che gli iconoduli opposero agli avversari prendono consistenza e trovano la forza non solo di contrastare ma anche di sconfiggere gli iconomachi solo se vengono collocate su un piano non intellettualistico ed astrattamente dottrinale. La vita della Chiesa vince una teoresi che la contraddice.

Risulta difficile accettare che tesi deboli ed inferiori siano riuscite col tempo a prevalere mentre gli iconoduli si trovavano ancora in minoranza nell’impero cristiano. Solo se queste tesi sono lette sul piano dell’esperienza ecclesiale le posizioni iconodule presentano tutta la loro consistenza e capacità di convinzione..

Le parole di disprezzo e di sdegno, mantenute anche nei testi liturgici che la Fogliadini riporta con grande abbondanza, non furono rivolte alle persone ma ad un dottrina che non solo era contraria ai sinodi universali ma vanificava la totalità dell’esperienza ecclesiale.

E’ comunque innegabile che il successo sempre crescente delle immagini ha anche portato ad abusi e ha così favorito le obiezioni che a vario titolo e da vari luoghi si sono levate contro di esse. La controversia tra fautori e detrattori delle immagini raggiunse la massima intensità quando circostanze politiche, sociali e religiose, sommandosi tra loro crearono una situazione particolarmente favorevole alla contestazione di una devozione popolare ormai inveterata.

L’apparizione sempre più abbondante delle immagini accanto alla proclamazione del Nuovo Testamento ed allo sviluppo del gesto liturgico spiega come in Oriente nell’area dell’impero l’icona si sia rivestita sempre più di un significato sacro ed abbia goduto in modo sempre più consistente della devozione del popolo. Anche la credenza dell’esistenza di immagini non prodotte dalla mano dell’uomo ha contribuito ad accentuare la valenza misterica dell’icona. Certamente la fantasia e la pietà popolare hanno ricamato abbondantemente su fatti ed elementi dei quali non si ha il sostegno della precisa testimonianza storica ed hanno dato credito a questa convinzione. Verso la metà del secolo scorso poi si cominciò a notare la corrispondenza dell’immagine di Cristo, quale appare nel sec. VI, con alcuni dettagli del volto della Sindone. Se ne trasse la possibile conclusione, solo teoricamente sostenuta, che la Sindone ripiegata fosse l’origine della credenza delle icone acheropite di quel tipo iconografico. Tutto ciò rimane solo un indizio. Ma rimane suggestivo questo accostamento perché alimenta l’intuizione che la credenza in immagini acheropite non è solo frutto di fantasia ma scaturisce da un fondamento reale che, entro certi limiti molto ristretti, può essere verosimilmente supposto anche se non storicamente provato.

Secondo l’analisi ben documentata dell’autrice Il settimo concilio ecumenico tentò una nuova difesa e comprensione della funzione dell’immagine sacra ma, riconoscendo la propria posizione ancora marginale all’interno dell’ecumene cristiana e considerando la scarsa persuasività della propria posizione a causa di una teologia solo abbozzata, “ritenne più strategico mettere in cattiva luce l’iconoclasmo e di contro proclamare con toni solenni la liceità della dottrina iconica“ (pag. 114) Inoltre rileva ancora che gli iconomachi “furono indebitamente accusati di rinnegare il dogma dell’incarnazione di Cristo e di smantellare le fondamenta della dottrina cristiana con il proprio diniego della validità delle immagini a soggetto religioso. Tale calunnia, perpetrata dalla corrente confessionale ortodossa richiamandosi all’ermeneutica proclamata dall’iconofilia dell’VIII e IX secolo, si sedimentò nella lettura corrente e perpetrò una disattenzione al dato teologico in termini storico-critici, che sciaguratamente persiste anche nella letteratura scientifica contemporanea“. (pag. 117)

Certamente tra le due posizioni c’è un notevole dislivello argomentativo. I discorsi si muovono su piani differenti come è stato abbondantemente chiarito. I primi si facevano forti di una dottrina molto ben elaborata a livello discorsivo mentre gli iconoduli, rifacendosi alla teologia del patriarca Germano e Giovanni Damasceno, si preoccuparono di dare un giudizio positivo ad una pratica ecclesiale di grande rilevanza e giustificarne la liceità facendo riferimento al fatto dell’incarnazione di Cristo. Presentandosi l’opposizione dottrinale su due piani differenti le argomentazioni degli iconoduli, incentrate sul fatto dell’incarnazione, non riuscirono ad opporsi in modo esaustivo alla dialettica dimostrativa degli iconomachi. Neppure la dottrina della partecipazione dell’immagine al prototipo formulata da Giovanni Damasceno e ripresa nell’horos del concilio entrava puntualmente nel merito per confutare la posizione tematizzata dagli iconomachi. Peraltro la Fogliadini sostiene che “Tale fondatezza teoretica fu, infatti, assicurata alla dottrina iconica solo dalle successive tesi di Niceforo di Costantinopoli e Teodoro Studita.“ (pag. 159) Più innanzi afferma “Le tesi del concilio iconofilo indubbiamente non raggiunsero i livelli speculativi del concilio di Hieria, ma pur mancando di un supporto teoretico altrettanto forte, il Niceno II introdusse argomentazioni innovative, destinate a mutare il corso della comprensione delle immagini sacre nel cristianesimo bizantino. Il secondo concilio di Nicea II operò in passaggio qualitativo dalla giustificazione delle icone come ricordo, aiuto didascalico funzionale al testo scritto, a tramite di rivelazione divina al pari della Scrittura.“ (pag.161).

Già precedentemente la Fogliadini, istituendo un collegamento tra la confutazione delle tesi iconoclaste e la nuova valenza teologica dell’immagine sacra, aveva affermato:

“La pressione speculativa e pratica della teologia contraria alle immagini sacre non fu ovviamente l’unica motivazione che incalzò l’iconofilia a rispondere in modo puntuale e sul piano teoretico alle tesi iconoclastiche, ma fu innegabile il ruolo giocato dall’iconoclasmo in merito all’approfondimento della dottrina delle icone in termini dogmatici. Tale elemento trova conferma non solo nelle tesi elaborate da quei teologi successivi al Niceno II quali Niceforo e Teodoro che risolsero l’impasse in cui, al di là dei solenni proclami conciliari del 787, si erano sostanzialmente incagliate le proposte iconofile, ma anche nella differente penetrazione e declinazione che Oriente e Occidente cristiani offrirono alla medesima tematica.“ (pag. 132)

Gli iconoduli da una parte affermano che la natura divina non è raffigurabile ma raffigurabile quella umana che si rapporta in modo del tutto particolare con quella divina secondo una modalità che sfugge alla ragione ma che è percepibile solo in rapporto col fatto dell’incarnazione. Giovanni Damasceno afferma che l’umanità di Cristo è immagine della sua realtà divina e quindi nella sua dimensione corporea risiede in modo simbolico tutta la realtà della sua divinità. Il Signore nella sua ipostasi, secondo Teodoro di Studion, riunisce le due nature delle quali una sola è raffigurabile. Gli iconoduli risolvono così il problema riferendosi all’esperienza storica nella quale l’immagine di Cristo è simbolo della sua presenza.

Le fonti storiche e le trattazioni teologiche che riguardano la controversia iconoclastica acquistano chiarezza, e mostrano tutta la profondità della loro testimonianza solo se considerate dentro l’esperienza storica che la Chiesa bizantina ha fatto della Divina Economia e in questo modo i problemi si presentano in una luce più vivida ed in una prospettiva che non è da considerarsi come pura autoreferenzialità.

S i passa così al secondo argomento di discussione preannunciato.

E’ certo che, nel contesto della secolare controversia che percorre i sec. VIII e IX, l’immagine sacra acquista una nuova e più ampia valenza teologica che si precisa col tempo.

E’ indubbio che il tono della controversia, che è stata ampliamente chiarita, abbia favorito una più precisa e approfondita comprensione del significato e del valore simbolico dell’immagine sacra. Non furono però gli iconoduli ad inventare che le immagini sacre, che decoravano sempre più abbondantemente le chiese, non fossero soltanto una illustrazione del vangelo ed un pio ricordo storico dei fatti più significativi della storia della salvezza. Essi appoggiarono le loro argomentazioni, le loro osservazioni e le loro riflessioni sugli autori precedenti che godevano di particolare autorità. E’ interessante capire quale sia la fonte di una indubbia novità teologica.

Gli iconomachi impegnati a contrastare atteggiamenti popolari che portavano ad abusi furono preoccupati di giustificare una posizione aniconica o almeno la non liceità della venerazione delle immagini fondata su un teorema astrattamente impostato. Gli iconoduli invece lavorarono fondandosi su una consapevolezza da tutti e da sempre accettata, e che quindi non ha bisogno di giustificazioni, che il cristianesimo non è dottrina, non è una raccolta di regole morali , non è sentimento né si riduce a pratiche devozionali. Per i Padri e i loro discepoli il cristianesimo è vita vissuta. E’ vita in Cristo, totalmente uomo individuo e totalmente Dio persona, che è presente ed agisce all’interno della storia umana nello Spirito Santo, realizzando così la Divina Economia che il Padre vuole con grande misericordia. Riflettendo su questa esperienza i Padri greci hanno elaborato la concezione del “simbolo“ che è una acquisizione originale della teologia bizantina, non coincide con il termine “segno“ della teologia latina ed ha causato tra l’altro l’evoluzione dello spessore teologico dell’immagine sacra.

Lo studio dello sviluppo del simbolo nella teologia dei Padri greci merita una attenzione tutta particolare sia perché chiarisce la realtà ed il valore dell’azione liturgica, la quale è sì costituita da parola e azione ai quali si aggiunge in intima unione l’immagine. Essa partecipa così, solo in unione con gli altri due elementi, della forza epifanica di manifestare nel tempo della storia quella presenza, nelle azioni e parole e immagini, che Cristo ha espresso nell’apax della sua vita in Palestina.

Per necessità sia permesso solo qualche rapido accenno. Si trovano le prime tracce chiare e significative della nozione di simbolo riferito all’azione liturgica nelle Catechesi Mistagogiche di Cirillo di Gerusalemme e nelle Omelie Catechetiche di Teodoro di Mopsuestia. Quest’ultimo parlando del trasporto dei santi doni nella processione dell’offertorio afferma “ Bisogna che noi vediamo Cristo che ora è condotto, se ne va, alla passione ; a un altro momento di nuovo è steso per noi sull’altare per essere immolato. Perciò alcuni dei diaconi, che stendono delle tovaglie sull’altare, presentano la somiglianza dei pannilini della sepoltura. “ (Enrico Galbiati, L’antichità di un simbolismo liturgico …, in Simposio Cristiano, Edizioni Istituto s. Gregorio Palamas, Milano 1978-1979, pag.125 – 126)

Teodoro sviluppa in seguito con dovizia di sottolineature il simbolismo delle persone e quello dei gesti.

Ulteriori considerazioni della nozione di simbolo sono presenti nel cap. III della Gerarchia Ecclesiastica dello pseudo Dionigi mentre presentando l’azione liturgica studia il rapporto tra la Gerarchia celeste e la Gerarchia ecclesiastica. Ancora, nel suo studio su Massimo il Confessore Alain Riou mette particolarmente in rilievo l’interpretazione simbolica della Trasfigurazione del Signore ( cfr. pag. 103 – 121 ) che diventa il riferimento fondamentale per comprendere in che modo s. Massimo intende il simbolo. La conclusione della sua ricerca gli fa affermare che la Trasfigurazione (dove viene in primo piano il rapporto tra umanità e divinità in Cristo) è simbolo escatologico della presenza di Dio nel mondo. Esso è manifestazione e presenza ipostatica. “ Il simbolo – o il tipo, che sembra qui totalmente sinonimo di simbolo – è innanzitutto la manifestazione, la « fania » del nascosto nel visibile ed attraverso questo (A. Riou, Le monde et l’Église selon Maxime le confesseur, Beauchessne, Paris, 1973, pag. 111). Questo studio sottolinea in particolare che nella cristologia di s. Massimo, ancor prima della controversia iconoclastica, è rintracciabile la radice della concezione dell’immagine sacra come presenza del Mistero che troverà ulteriore e più matura affermazione nella teologia degli iconoduli. L’opera mistagogica dello pseudo Germano di Costantinopoli “Storia ecclesiastica e contemplazione mistica“ dà al simbolo una spiccata connotazione liturgica. Infatti questa opera è una analisi simbolica della struttura delle chiese cristiane, dell’abbigliamento dei vari ordini del clero e della struttura dell’azione liturgica. Essa è datata tra la fine del Sec. VII e l’inizio dell’VIII, poco prima dello scoppio della lotta iconoclastica. In essa tra l’altro attraverso una puntuale presentazione dei gesti che il vescovo compie nella Divina Liturgia collegati alle parole pronunciate durante l’azione sacra che viene officiata all’interno della struttura della chiesa, che nel suo complesso simboleggia il cosmo, già si profila l’unità di parola,gesto ed immagine che è stata già richiamata. Si comprende allora che nelle opere degli iconoduli l’immagine sacra non è più considerata solo illustrazione della scrittura ma simbolo liturgico. L’immagine – simbolo, che dunque non è improvvisa scoperta o invenzione della loro teologia, proviene da una riflessione dei Padri greci sulla vita ecclesiale, che si è sviluppata in un ampio arco di tempo. In particolare emerge dal discorso degli iconoduli la convinzione che è la vita stessa della Chiesa la soluzione del problema impostato in modo intellettualistico dagli avversari delle immagini, ma affrontato dai difensori  in modo esistenziale.

La parola liturgica è proclamazione del testi sacri, canto delle composizioni poetiche che si nutrono copiosamente del pensiero dei Padri Greci, omelia che interpreta in modo autorevole la Sacra Scrittura e soprattutto parola che dice i gesti che vengono compiuti. Il gesto poi è eminentemente memoria dei misteri di Cristo che riattualizzano l’Economia Divina. Ad essi si aggiunge l’immagine che unendosi a parola e gesto partecipa in modo pieno della dimensione simbolica e perciò si riconosce che in essa è viva la presenza di ciò che è rappresentato.

Che l’immagine sacra partecipi del simbolismo liturgico è una consapevolezza che deriva dallo sviluppo stesso delle sacre ufficiature e dall’esperienza religiosa che ne deriva. Tale esperienza però non sopporta, come indicato, una discussione speculativa sulla sua validità, come vollero fare gli iconoclasti, ma si iscrive nella prassi della vita cristiana.

Non è necessario seguire l’autrice negli ulteriori eventi analizzati per comprendere la portata ed il valore della ricerca resa pubblica. E’ comunque doveroso almeno accennare che nell’opera è presente anche una accurata analisi della ripresa dell’iconoclasmo realizzata nel Concilio dell’anno 815 e durata fino al sinodo dell’ anno 843 in seguito al quale si celebrò il Trionfo dell’Ortodossia.

Chiude poi l’indagine storica l’interessante studio sulla posizione presa riguardo alle immagini dai Libri Carolini e dal sinodo di Francoforte (794)

L’atteggiamento del mondo latino offre all’autrice l’occasione per ribadire la validità della propria tesi secondo la quale il cristianesimo latino rimase fedele alla antica interpretazione delle immagini intese come “ausilio alla Scrittura“ ed in questo modo fu in grado di consentire alla liceità delle immagini senza condividere la nuova dimensione teologica dell’immagine che si affermò nel concilio di Nicea II e si sviluppò ulteriormente durante la ripresa della controversia tra il concilio iconoclasta dell’815 ed il Trionfo dell’Ortodossia.

La recezione in Occidente dell ’horos di Nicea avvenuta in uno sviluppo storico lungo e tortuoso porta l’autrice ad affermare che la Chiesa latina ricorda al cristianesimo orientale che “l’interpretazione dell’immagine sacra, cui rimase fedele, era tradizionalmente intesa in termini didattici e rammemorativi : il secondo concilio di Nicea ne mutò i termini attribuendo all’icona una natura teologica inedita e destinata a mutare il corso della storia dell’immagine sacra cristiana.”(pag. 334)

Il mondo latino dunque non accettò l’immagine sacra nella sua esplicita dimensione teologica intesa come manifestazione della presenza del divino nella storia dell’uomo perché non ne ha fatto esperienza nel celebrare e vivere le ufficiature ed in particolare la Divina Liturgia. La cristianità bizantina però offre al mondo cristiano questa esperienza, che appartiene al proprio carisma, come un dono che può essere fecondo.

In conclusione il lavoro ha il pregio di essere una valutazione appassionata dei fatti in una vivace ricostruzione storica. Ancora ripropone all’attenzione della teologia italiana il tema delle immagini sacre che negli ultimi decenni sono abbondantemente giunte in Italia dall’Oriente bizantino-ortodosso. Sono state apprezzate per la loro espressività realizzata con un linguaggio che esalta l’annuncio che esse proclamano. In molte chiese latine infatti le icone sono entrate a far parte del corredo liturgico senza però essere accompagnate da tutto lo spessore teologico che le costituisce e le caratterizza. Inoltre la ricostruzione storico-teologica che viene presentata ed i giudizi che ne scaturiscono, qualora non siano completamente accettati, sono particolarmente stimolanti per la ricerca storica e teologica proprio per il modo con il quale vengono formulati. Essi obbligano a riesaminare ed approfondire alcuni aspetti peculiari e costitutivi dell’esperienza ecclesiale ( il carisma dell’ortodossia ) vissuta dal cristianesimo bizantino-ortodosso che in Italia è spesso menzionato ma sempre troppo poco conosciuto. Infine l’opera dà un contributo storico apprezzabile, per la sua metodologia di ricerca, in ordine ad una più approfondita comprensione del complesso periodo in esame.

Bisogna quindi ringraziare l’autrice per questo suo lavoro, per la sua rilettura stimolante di una pagina storica che non ha ancora rivelato tutti i suoi aspetti più riposti. Infatti, come riconosce Sergej Boulgakov, “il fenomeno dell’iconoclasmo è molto complesso dal punto di vista storico, e non è stato indagato fino in fondo.” (S. Boulgakov, L’icône et sa veneration, traduzione francese L’Age d’Homme, pag. 14 )

Pietro Galignani