«L’icona nel pensiero russo del XX secolo»

pdf_buttonRiceviamo e pubblichiamo lo studio  dal titolo «L’icona nel pensiero russo» a cura di Pietro Galignani. Si tratta di una versione aggiornata dell’articolo pubblicato nel gennaio-febbraio 1988 sul n. 55 di “Servitium – Quaderni di spiritualità”, Sotto il Monte (BG), già riportato su www.larici.it.

L’icona nel pensiero russo del XX secolo [1]

a cura di Pietro Galignani
Milano, giugno 2016

Nei primi due decenni del secolo passato la cultura russa fu pervasa da fremiti profondi originati da una acuta insoddisfazione generale per le condizioni in cui la Russia versava.
Berdjaev, che ha vissuto quegli anni da protagonista, afferma che la concezione del mondo tipica dell’intelligencija di sinistra venne sottoposta a una critica totale da quegli autori che da posizioni marxiste erano approdati a una visione spirituale della vita. Mentre il marxismo, a partire dagli anni novanta, si affermava e si contrapponeva al populismo con un progetto scientifico per il rinnovamento della società russa, un gruppo di giovani, dopo essere stato fervente socialista, ritrovava nuova fonte di meditazione negli autori religiosi del secolo precedente dei quali percepì immediatamente l’importanza.
Questa rinascita religiosa venne aspramente combattuta dai gruppi antagonisti rinfacciandole di tradire la causa della emancipazione popolare, di voltare le spalle alle giuste aspirazioni dei ceti più umili, di essere la reazione nobiliare al pensiero borghese e proletario. Benché questa critica sia stata incapace di valutare il significato del movimento che si apriva a dimensioni ignote alla sensibilità e alla attenzione dell’intelligencija radicale, tuttavia metteva in luce la sua profonda debolezza e incapacità di coinvolgere ampi strati della popolazione. Proprio per la sua incapacità di valutare adeguatamente la dimensione sociale e politica, questo movimento che ha espresso una cultura raffinata, originale, ricca di spunti vitali, fu incapace di creare una valida alternativa ai conati insurrezionali e rimase in definitiva emarginato in una sterile e astratta visione del mondo che non aveva stabili contatti con i problemi reali della Russia.

 Certamente in questa prospettiva unilaterale i filosofi religiosi si mostrarono incapaci di approfondire adeguatamente tutte le prospettive di V. S. Solov’ev che è concordemente riconosciuto come il fondamentale ispiratore di tale movimento anche
se esso si sviluppò dopo la sua morte. Tuttavia gli rimasero fedeli nella meditazione delle principali tematiche filosofiche e nella realizzazione e riscoperta della tradizione russa nella quale l’icona è un elemento particolarmente significativo.
Proprio durante gli anni della guerra mondiale e della rivoluzione E. N. Trubeckoj e P. Florenskij misero le basi per una nuova teologia dell’icona capace di andare oltre le conclusioni offerte dal secondo concilio di Nicea che concluse il convulso periodo della lotta iconoclastica. Ciò fu possibile proprio perché nei primi decenni del secolo si riscoperse la tradizione iconografica antica e il suo legame profondo con la vita della Chiesa e del popolo russo.

Una riscoperta della tradizione

E. N. Trubeckoj [2], amico personale di Solov’ev, del quale condivideva quasi completamente le idee, sviluppò in particolare la dimensione politica della filosofia della storia studiando soprattutto lo sviluppo delle idee politiche nella storia del cristianesimo occidentale. L’esperienza di eventi catastrofici, quali la rivoluzione del 1905, la prima guerra mondiale e la rivoluzione russa lo spinsero a meditare il significato della storia e l’escatologia nella sicurezza che lo sviluppo del mondo naturale ha significato solo in riferimento al mondo spirituale e che il destino della natura è nella sua spiritualizzazione [3]. In questa prospettiva scopre il mondo dell’icona che accosta in modo intuitivo. Il particolare rapporto che egli concepisce tra mondo naturale e spirituale gli permette di cogliere con acutezza alcuni tratti significativi dell’icona, tratti che verranno sviluppati più tardi da altri autori attraverso uno studio dell’icona nella viva corrente della tradizione religiosa. All’icona dedicò tre articoli scritti tra il 1915 e il 1917 [4].
L’icona per Trubeckoj non è un semplice ritratto, ma la profezia della futura umanità trasfigurata. E poiché essa ancora non è visibile ma solo possiamo intravederla, l’icona può unicamente costituirne la raffigurazione simbolica.
L’icona non rappresenta il mondo e l’uomo nella sua greve materialità, nel suo naturalismo sul quale impera la legge biologica della sopraffazione per la sopravvivenza, bensì il significato ultimo dell’uomo e del cosmo nella sua spirituale realizzazione nella quale domina la legge dell’amore. E questa profezia del significato e del destino del mondo è una speranza e una consolazione per chi si trova a lottare in questo mondo di fiere.
L’icona svela il senso profondo dell’esistenza, dà una risposta al problema del senso della vita che sempre si impone all’uomo, ma il suo linguaggio simbolico è incomprensibile per la carne sazia, inaccessibile al cuore gonfio di sogni di benessere, ma diventa vita quando queste fantasie crollano a pezzi e agli uomini si apre l’abisso sotto i piedi. Scrivendo durante la prima guerra mondiale, con gli occhi pieni degli orrori che coinvolgevano l’Europa, egli si rende conto che l’umanità è al bivio, l’uomo deve decidere se accettare la deificazione o diventare una belva.
L’icona indica pure la strada per la trasformazione dell’uomo perché si può arrivare alla gioia dell’universale resurrezione solo attraverso la croce vivificante del Signore. Il tema dell’iconografia è il superamento delle discordie del mondo, la trasfigurazione dell’universo nel quale ogni creatura è unita all’altra. Questa tematica era vissuta dall’antica cultura russa e ne era il contenuto più profondo e più vero. Bisogna recuperare il senso della tradizione religiosa, il senso della vita che è stato vissuto per secoli dal popolo russo ed è stato annunciato in modo ammirabile dall’icona che è una delle massime creazioni del suo genio popolare.
L’architettura sacra e l’arte iconografica russa appartengono senza dubbio al novero di queste opere. In esse la nostra anima popolare ha rivelato quanto possiede di più bello e intimo, la trasparente profondità dell’ispirazione religiosa che più tardi si manifestò al mondo anche nelle opere classiche della letteratura russa. Dostoevskij affermò che “la bellezza salverà il mondo”; sviluppando lo stesso concetto, Solov’ev annunciò l’ideale dell’ “arte teurgica”. Quando furono pronunciate queste parole la Russia non sapeva ancora quali tesori d’arte possedeva. Da noi l’arte teurgica era già esistita. I nostri iconografi avevano visto questa bellezza per cui il mondo si salva e l’avevano immortalata nei colori [5].
Nell’iconografia russa però non è rappresentato soltanto il mondo della gloria di Dio che si espande su ogni creatura e ne svela l’anima profonda, che oggi non possiamo vedere perché ancora nascosta, ma è rappresentato anche il mondo dell’esperienza umana della Russia, piena di patimenti, di peccati, ma tendente a trovare in Dio la soluzione di ogni travaglio, a placare in lui tutte le proprie contraddizioni e a purificarsi dalle proprie miserie.
01 San Giorgio e il dragoNelle icone si rispecchia la Russia contadina con i suoi particolari protettori e intercessori. In particolare il profeta Elia spesso rappresentato dalla pittura di Novgorod mentre viene rapito in un carro di fuoco, su uno sfondo purpureo di cielo tempestoso. Anche san Giorgio il vittorioso ha una strettissima relazione con la terra come il profeta Elia, il santo tonante. Sopratutto l’immagine contadina della Russia è presente nelle icone dei santi Floro e Lauro.
Quando vediamo questi santi in mezzo a una mandria di cavalli, dai più vari mantelli, saltanti e folleggianti, sembra che il quadro pieno di gioia di vita costituisca un gradino intermedio tra lo stile iconografico e quello fiabesco. E ciò soprattutto perché Floro e Lauro più di qualsiasi altro santo hanno conservato le fattezze russe popolari, anzi quelle schiettamente contadine [6].
La presenza di due piani dell’esistenza, cioè quello della gloria di Dio e quello della Russia terrena, agricola, pezzente e regale che viene vivificata dal contatto con il mondo divino è resa in modo magistrale dall’uso dei colori che segnano il limite fra due mondi. I colori del mondo visibile hanno assunto il significato convenzionale simbolico di segni del cielo ultraterreno. L’incontro tra i due mondi è espresso anche nella psicologia dei personaggi rappresentati. Esempio eloquente è la rappresentazione degli evangelisti sulle porte regie: essi esprimono lo stato d’animo dell’uomo che guarda ma non vede, perché è interamente immerso nell’ascolto e nella trascrizione di ciò che ascolta. Nell’iconografia si riflette la lotta di due mondi e di due concezioni del mondo che riempie di sé tutta la storia dell’umanità. Da una parte vediamo una concezione del tutto superficiale che riduce ogni cosa al piano terrestre, dalla parte opposta si fa avanti quel senso mistico del mondo che vede in esso e sopra esso una quantità di sfere, una grande varietà di piani d’esistenza e sente con immediatezza la possibilità di trapassare da un piano all’altro.
02 Floro Lauro Vlasio ModestoInfine Trubeckoj ritrova nelle icone russe l’esperienza del popolo nei momenti più significativi della sua storia. L’immagine di san Sergio, ricamata in seta, nella sacrestia della Lavra della Trinità lo colpisce per la impressionante profondità e forza della tristezza “che non è personale o individuale, ma tristezza per tutta la terra russa, derelitta, umiliata e straziata dai Tatari” [7]. Ancora, guardando le icone della prima metà del sec. XIV egli coglie, insieme ai primi barlumi del genio nazionale, la pusillanimità del popolo che ancora non osa credere in se stesso. “Contemplando queste icone vi appare subito evidente che il pittore ancora non osa essere russo” [8]. Guardando invece le icone dei secoli XV e XVI egli sottolinea il più completo mutamento di stile. In queste icone egli vede che tutto è diventato più russo; perché il pittore subiva l’influenza del grande slancio nazionale che in questo momento abbracciava tutta la società russa:
Questo cambiamento dello stato d’animo si manifesta nell’icona anzitutto con il comparire del largo volto russo, spesso incorniciato da una folta barba, che prende il posto del volto greco [9].
Mutano anche le architetture religiose raffigurate nelle icone, Elia viene rappresentato sul cocchio dove nella nube di fuoco ci sono bianchi cavalli con la bardatura tipicamente russa. Anche un’icona di san Nicola rappresenta un poloviano in pelliccia russa.
In definitiva il limite tra le due epoche artistiche è segnato dalla visione della Russia glorificata non soltanto nelle fattezze umane ma nella stessa natura russa. L’interpretazione dell’icona proposta da Trubeckoj denota la profonda impressione provocata da una scoperta inattesa; più che un’analisi accurata dal punto di vista storico, artistico e religioso ci troviamo di fronte a una serie di impressioni provocate dalla ricchissima produzione iconografica. Essa smetteva di essere muta perché la contemplava dopo aver recuperato il senso della tradizione religiosa che i primi slavofili avevano faticosamente riscoperto e Solov’ev aveva acutamente, anche troppo personalmente, sintetizzato.
Fu la situazione culturale del suo tempo, la preoccupazione di dare una risposta ai problemi in cui l’intelligencija russa si dibatteva, la necessità di prendere posizione nella lotta tra la concezione cristiana dell’esistenza e le concezioni dell’intelligencija radicale a guidare la meditazione di Trubeckoj. Alla profonda intuizione dell’icona come immagine del mondo spiritualizzato, come profezia dell’unico modo autentico di concepire il rapporto tra gli uomini, si accompagna l’idea che la Russia si rispecchi nelle sue icone non solo da un punto di vista artistico e religioso, ma anche dal punto di vista etnico e nazionale. Si sente qui l’eco del messianismo russo, della santa Russia, come la suprema espressione del cristianesimo che già Solov’ev aveva profondamente superato.
Se è vero che nelle icone dei sec. XV e XVI appaiono più chiaramente le fattezze dell’uomo e i tratti del suo ambiente naturale ciò è semplicemente il veicolo artistico che esprime un annuncio molto più ampio dell’esperienza storica e religiosa della Russia.

La metafisica dell’icona

Più profonda e articolata è la teologia dell’icona di Pavel Florenskij [10] il quale, poiché aveva frequentato l’accademia teologica di Mosca, ebbe modo di avere un contatto profondo e sistematico con la tradizione e una buona conoscenza del pensiero teologico. Nella sua fondamentale opera teologica (Colonna e fondamento della verità) egli sostiene decisamente che le verità cristiane possono essere conosciute soltanto attraverso una esperienza religiosa personale. Fondamento di questa verità è la Trinità che fonda attraverso la sua energia e la sua attività creatrice il rapporto specifico delle persone tra loro e realizza, nella sua consustanzialità ontologica, il fondamento del rapporto veritativo, morale ed estetico.
Partendo dalla sua visione teologica della realtà, che si presenta come una interiore e personale partecipazione e comprensione della tradizione, concepisce l’uomo come appartenente al mondo materiale che però ha la sua radice in quello spirituale e ciò fa da fondamento alla sua concezione teologica dell’icona. Lo studio di questa fa parte di una serie di analisi sugli elementi costitutivi ed espressivi della tradizione cristiana delle quali esistono lavori preparatori che però non poterono mai trovare la loro definitiva sistemazione. Ci rimane in particolare uno studio incompiuto che porta il titolo Ikonoctas, tradotto in italiano con il titolo: Le porte regali[11].
Il punto di partenza dell’analisi è l’esperienza interiore che ci attesta che il mondo visibile e quello invisibile sono a contatto prima di tutto attraverso l’esperienza del sogno, il primo e più comune passo della vita verso l’invisibile, il quale ci fa capire che il mondo in cui viviamo è un mondo capovolto, ontologicamente riflesso in uno specchio. “Il sogno è segno del trapasso dall’una all’altra sfera e un simbolo”[12]. Anche la creazione artistica fa trapassare dal mondo materiale al mondo spirituale cosicché l’arte è un sogno sostenuto e come nel sogno vi sono due tipi d’immagini, quelle cioè di chi sale dal mondo materiale a quello spirituale e di chi discende dal mondo superiore a quello inferiore, così:
Andando dalla realtà all’immaginario, il naturalismo offre un’immagine fantastica del reale, un superfluo esemplare della vita quotidiana; l’arte opposta viceversa, il simbolismo, incarna in immagini reali una diversa esperienza, e offrendocele crea una realtà più alta.[13]
Nella mistica avviene qualcosa di analogo ed è il terzo tipo di esperienza che ci mette a contatto con il mondo spirituale che è la radice nascosta ma fondante di quello materiale:
L’opposizione ontologica di queste visioni e delle altre – le visioni da ricchezza e le visioni da difetto – può essere meglio che da qualunque altra cosa caratterizzata dall’opposizione delle parole maschera e sguardo.[14]
Il volto è ciò che si vede nell’esperienza diurna e la manifestazione di questa coscienza è il modello grezzo su cui lavora il ritrattista. Il volto può diventare sguardo e perciò manifestare la struttura ontologica del reale, attraverso un impegno ascetico che partendo dall’immagine di Dio, che ciascuna persona porta con sé e che è il suo fondamento ontologico, si muove verso la perfezione spirituale realizzando così la somiglianza cosicché attraverso la spessa scorza materiale erompe l’immagine di Dio. Lo sguardo è la somiglianza a Dio resa presente sul volto…
03 iconostasiLo sguardo di per sé, in quanto contemplato, essendo testimonianza di questo archetipo e trasfigurando il suo volto in sguardo annuncia i misteri del mondo invisibile senza parole, con il suo stesso aspetto.[15]
La maschera invece si presenta come volto, ma dentro è vuoto sia nel senso materiale fisico, sia quanto a sostanza metafisica. Cosicché si può schematizzare il rapporto di questi tre elementi: il volto è la luce mescolata alle tenebre, la sublime ascesa spirituale accende nel volto uno sguardo luminoso, cancellando tutte le tenebre, mentre quando si cade in preda alle passioni il volto si stacca dalla persona, dal suo principio creatore, perde vita e si irrigidisce in una maschera. La via di questa ascesa è la Chiesa sia nella dimensione del tempo, che in quella dello spazio cioè attraverso la liturgia e la struttura del tempio che, come la scala di Giacobbe, dal visibile si eleva all’invisibile e così si distingue in chiesa e santuario. Lo schermo del santuario che distingue i due mondi è l’iconostasi; essa rende accessibile alla coscienza la schiera dei santi, la nuvola della testimonianza, coloro che circondano il trono di Dio, la sfera della gloria celeste, e annunciano il mistero.[16]
L’iconostasi è una visione, la manifestazione dei santi e degli angeli e soprattutto della madre di Dio e del Cristo.
L’iconostasi è i santi. E se tutti gli oranti nella chiesa fossero abbastanza ispirati, se gli oranti fossero tutti veggenti, non ci sarebbe altra iconostasi all’infuori degli astanti testimoni di Dio a Dio, mercé i loro sguardi e le loro parole annuncianti la Sua terribile e gloriosa presenza.[17]
L’iconostasi dunque è un aiuto per quelli che sono nella chiesa, per quelli che ancora non sono abituati alla visione del mondo spirituale, il quale non è lontano da noi, ma si presenta come un mare di luce che il nostro occhio interiore è ancora incapace di vedere.
E l’icona è identica alla visione celeste e non lo è, è la linea che contorna la visione. La visione non è l’icona: essa è reale in se stessa; l’icona, che coincide nel contorno con l’immagine spirituale, è per la nostra coscienza questa immagine, e fuori dell’immagine, senza di essa, a parte essa, in se stessa, astratta da essa non è né immagine, né icona, bensì una tavola.[18]
Un esempio chiarisce questa concezione dell’icona. Essa è come una finestra che diffonde la luce cosicché si può dire che essa stessa è luce, ma, se si toglie il suo rapporto con la luce, alla finestra viene meno la sua struttura ontologica e si riduce a legno e vetro.
Nel senso indicato si può dire che l’icona è simbolo purché si abbia una esatta nozione di esso. Il simbolo infatti non è qualcosa di autosufficiente, qualcosa di vero in sé e per sé, non ha una consistenza autonoma perché proprio in forza del suo essere simbolo esso non coincide mai con l’elemento condizionato cioè con ciò che opera il riferimento e quindi la sua struttura ontologica gli impone di essere di più o di meno.
Se il simbolo, in quanto conforme allo scopo, raggiunge lo scopo, esso è realmente indivisibile dallo scopo – dalla realtà superiore che esso rivela – se esso invece non rivela una realtà, ciò significa che non ha raggiunto lo scopo e pertanto in esso non è possibile ravvisare un’organizzazione conforme a uno scopo, una forma, e significa che mancando questa, non è un simbolo, non è uno strumento dello spirito, bensì mero materiale sensibile.[19]
Per questo motivo, l’icona, visibile rappresentazione di spettacoli misteriosi e soprannaturali, è veramente una visione celeste oppure si riduce a tavola dipinta. Se non è capace di essere simbolo la tavola dipinta non diventa immagine, icona del mondo spirituale e si riduce a segno. In questo senso si spiega la distinzione che il concilio di Nicea pose tra la tecnica e l’ordine dell’icona. All’artista spetta l’aspetto tecnico dell’opera, invece ai santi Padri l’ordine della visione perché essi veramente hanno imparato ad aprire gli occhi sul mondo spirituale e hanno contemplato ciò che l’icona rappresenta. Cosicché l’icona ha il proprio fondamento ontologico nel mondo sovrasensibile, è lo sguardo dei mistici che hanno contemplato la luce divina che viene reso pubblico, portato al livello di tutti mediante l’opera artistica. L’artista allora diventa il testimone del testimone, rappresenta in linee e colori la realtà di queste forme contemplate nella luce di Dio.
04 TrinitaQuesto è il senso del significato evocatorio delle icone le quali evocano per coloro che pregano i propri archetipi e guardando le icone il fedele solleva la mente dalle immagini agli archetipi. Bisogna però, secondo l’intendimento essenziale della tradizione, concepire un rapporto reale tra archetipo e immagine non soltanto psicologico e soggettivo poiché ciò ci porterebbe sulle posizioni dell’opposizione iconoclastica. Essa infatti non negava la possibilità e l’efficacia della pittura religiosa, bensì negava a essa ogni venerazione poiché veniva reciso ogni legame reale tra archetipo e immagine. Così secondo Florenskij ogni icona desta nella coscienza una visione spirituale e, per chi ha contemplato nitidamente e coscientemente questa visione, la visione secondaria per mezzo dell’icona è anch’essa nitida e cosciente. Ma per chi è riuscito a sollevarsi fino alla contemplazione della luce divina, l’icona risponde a una percezione spirituale profondamente assopita al di sotto della consapevolezza, essa perciò non afferma semplicemente che esiste questa percezione ma avvicina questa esperienza alla coscienza.

Lo sguardo spirituale dei mistici è fissato per la prima volta in icone che possono essere chiamate protorivelate e prototipiche come la Vladimirskaja o la Trinità di Rublëv; ci sono poi le copie di queste icone, vero contorno della luce divina attraverso le quali la luce sfolgorante si compone in immagini, che sono più o meno aderenti al modello. Ma il loro contenuto spirituale non è diverso da quello, non è nuovo e non è simile all’originale, ma è l’originale stesso, benché manifestato attraverso un fitto velo e un tramite torbido. E ciò dipende dall’artista se ha saputo rivivere o no ciò che ha rappresentato, se attraverso l’originale gli si è rivelata con sufficiente chiarezza la realtà spirituale rappresentata.

Dipende dunque dal livello spirituale dell’artista se egli deve essere considerato uno živopis’ o un ikonnik (un iconografo o un mestierante). Il compito dell’iconografo nella sua interiore ascesa spirituale è quello di capire il senso del canone, di penetrarlo in profondità e di fondere la propria esperienza personale ascetica con la tradizione della Chiesa che proprio si esprime nella presentazione delle immagini canoniche perché essi si rendano conto che non stanno rappresentando qualche cosa di immaginato da loro bensì una realtà effettiva che è patrimonio dell’esperienza ecclesiale, “un’esperienza che garantisce la continuità del filo delle deposizioni testamentali che comincia dal Cristo Prototestimone, fino al nucleo stesso dell’incarnazione ecclesiale”.[20]

Solo in questa dimensione il pittore ha il diritto di inscrivere sull’icona il nome poiché esso è il nome del prototipo e l’immagine come simbolo si realizza totalmente in esso. A questo il pittore è educato dalla tradizione della Chiesa, la sua ascesi non è una salita solitaria ma avviene nella Chiesa e per la Chiesa attraverso le forme del culto. “Il culto infatti svela sguardi sacri ed educa e dirige l’esecuzione dell’icona”.[21]

È tutta la tradizione della Chiesa nelle sue varie espressioni che porta il pittore a cogliere il senso profondo delle immagini, a farle diventare una sua esperienza. Così la Scrittura, i divini misteri, le opere dei santi padri, il canone iconografico diventano il luogo della sua maturazione spirituale e della sua capacità di rendere trasparente nell’icona il prototipo. Infatti a fondamento dell’icona sta sempre una esperienza spirituale che ha una quadruplice radice. Fonte dell’icona è la Scrittura, cioè la parola di Dio rivelante la realtà spirituale, l’esperienza personale del pittore che raffigura ciò che gli è dato vedere non soltanto come fatto esterno ma anche come spirituale illuminazione, la comunicazione orale o scritta di una esperienza spirituale altrui, avvenuta nel passato e infine, per le icone rivelate, una visione od un sogno misterioso. Proprio per tutte le considerazioni fatte:
Nei mezzi stessi della pittura d’icona, nella sua tecnica, nelle materie adoperate, nella fattura dell’icona si esprime la metafisica, di cui vive e grazie a cui esiste l’icona. Le stesse materie usate in questo o quel tipo o aspetto dell’arte, sono simboliche e ciascuna di esse ha il suo carattere concretamente metafisico attraverso il quale si accorda a questa o altra esistenza spirituale.[22]
La concezione dell’icona di Pavel Florenskij è una metafisica dell’immagine, potremmo dire una estetica metafisicamente fondata in una filosofia religiosa che ha come proprio fondamento l’intuizione del mondo spirituale come realtà originaria nella quale la Trinità è il fondamento luminoso. Bisogna considerare dunque quest’analisi come sviluppantesi dalla concezione espressa nell’opera maggiore in cui appunto si mostra come la Trinità stessa sia fondamento metafisico. Notiamo in questa impostazione della sua teologia un influsso potente del pensiero di Solov’ev proprio nel tentativo di recuperare in chiave metafisica la tradizione della Chiesa. Ne nasce una interessantissima prospettiva estetica la quale vede nel simbolismo la realizzazione perfetta dell’arte; non è un caso che proprio Solov’ev sia il maggiore ispiratore del simbolismo russo se non addirittura possa esserne considerato il fondatore.
Il pensiero di Florenskij si muove tutto nella filosofia religiosa sbocciata in Russia nei primi venti anni del secolo e in questo ambito deve essere compreso e valutato. Tuttavia questa impostazione che offre spunti profondi e originali di meditazione tende a riassorbire la tradizione della Chiesa in una concezione metafisica o meglio ripensare metafisicamente tale tradizione lasciando poco libera la tradizione stessa di esprimere il proprio annuncio.
Nei confronti con la teologia dell’icona, espressa dal settimo concilio ecumenico, rimane marginale, anche se accennato, il riferimento all’esperienza che la Chiesa storicamente ha del suo rapporto in Cristo con la Trinità; infatti non è sottolineato sufficientemente il rapporto tra gli elementi in cui si esprime la tradizione e la creazione iconografica privilegiando il momento mistico delle visione al di là della dimensione storica. Se è vero che l’icona nasce in una esperienza mistica che arricchisce la tradizione, è anche vero che la realtà dell’icona deve essere compresa all’interno della storia della salvezza o Economia Divina e questo riferimento in Florenskij è molto labile anche se non completamente ignorato. La teologia del settimo concilio sottolinea come l’icona nasca dall’esperienza storica degli apostoli i quali hanno visto le fattezze umane di Cristo e della Madre di Dio; il richiamo a Luca primo iconografo in questo senso è eloquente. Ancora è poco sottolineato l’annuncio dell’icona, anche se è chiaramente detto che l’icona è questo annuncio, non se ne evidenzia il contenuto che è la coscienza che la Chiesa ha della salvezza operata da Cristo.
Il pensiero dei filosofi religiosi russi, e la teologia dell’icona ne è un esempio, procede attraverso intuizioni luminose che spalancano profonde prospettive. Il loro è un contributo dirompente, carismatico, che sconvolge l’ordinata e tradizionale sintesi nella quale la teologia russa esprimeva la propria coscienza ecclesiale. La Chiesa, profondamente compromessa col regime zarista, non è capace di presentarsi come reale alternativa all’intelligencija radicale unendo in una sintesi efficace fede e cultura. Essa però è profondamente sollecitata dai nuovi contributi a ripensare i fondamenti della propria autocoscienza, ma i frutti di tale esplosione culturale non potranno maturare in Russia ma solo negli ambienti dell’emigrazione.

La Divina Sofia e l’icona

S. Bulgakov (1871 – 1944) è senza dubbio uno dei più robusti pensatori russi del secolo passato. E’ stato personalmente coinvolto in tutti gli eventi significativi della storia russa, tra la fine del sec. XIX ed il 1922, quando fu costretto ad emigrare dal nuovo governo rivoluzionario e visse a Parigi dal 1925 fino alla morte. Dopo essere passato dal marxismo all’idealismo ed essere approdato al cristianesimo, a Parigi si dedicò alla ricerca teologica. Sarebbe troppo complesso in questa sede ricostruire la sua fisionomia di esponente dell’intelligencija e di teologo della sophia, che rimane il sigillo personale ed il contributo specifico del suo pensiero teologico. Attraverso essa in tutte le sue opere ripensa e ripropone gli aspetti più significativi del cristianesimo secondo la caratteristica declinazione dell’ortodossia russa.
Scrisse un opera sulla Sapienza Divina,  una sintesi del suo pensiero che aveva già presentato in saggi specifici negli anni precedenti, nella quale rilegge brevemente la dottrina trinitaria, la creazione, l’incarnazione, lo Spirito Santo, la Madre di Dio, la Chiesa studiate dal punto di vista sofiologico.
Egli ritiene che “ La sofiologia è una Weltanschauung, una visione cristiana del mondo, una concezione teologica o, se si vuole, dogmatica, che caratterizza una tendenza (per nulla prevalente dell’Ortodossia), come lo sono,per esempio, il tomismo o il modernismo nel cattolicesimo, il « gesuanismo» liberale o il barthianesimo nel protestantesimo.” Sergej Boulgakov, La Sagesse de Dieu, L’Age d’homme, Lausanne 1983, pag. 13)
Ne ritrova tracce in tutta la storia del cristianesimo orientale. In Occidente ci fu un singolare sviluppo di questa dottrina in Jakob Böme e in Maestro Eckhardt che ritiene la fonte nascosta della filosofia di Schelling, Hegel e di Baader. Dalla filosofia romantica tedesca del sec. XIX si riversò anche in Russia dove ebbe numerosi cultori che diedero contributi originali alla dottrina della Sofia primo fra tutti Solov’ev che influenzò tutta la rinascita religiosa del se. XX.
Anche il contributo sulla teologia dell’icona risente di questa particolare impostazione teologica che, almeno nel contesto della cultura russa dell’emigrazione, è stata a lungo dibattuta mentre in quello della teologia  cattolica latina è del tutto sconosciuta.
All’icona dedica l’opera “L’icona e la sua venerazione “, editato in russo a Parigi nel 1930 e tradotto in francese nel 1996
Il saggio ha nella prima parte un andamento spiccatamente teoretico perché si propone di risolvere il problema di come il Divino entra in contatto con la dimensione umana in modo che si possa realizzare l’incarnazione. Essa infatti è il presupposto perché si riesca a dire che l’icona è presenza del mistero di Dio ed annuncio della sua misericordia che avviene nella Divina Economia.
Innanzitutto Bulgakov analizza la struttura logica della posizione che gli iconoclasti hanno assunto per poi confrontarla sempre logicamente con le ragioni opposte dai difensori delle sacre immagini.
Egli esordisce dicendo che nel suo horos il concilio di Nicea II non ha formulato nessuna espressione dogmatica. “ Questo testo non contiene nessun insegnamento teologico sulle icone né fissa un principio dogmatico della loro venerazione. Rende semplicemente legittimo il loro uso e stabilisce il modo con il quale è conveniente onorarle (con un atto di venerazione timetiké proskunesis, e non con un atto di culto latreia)..”. aggiunge poi che “ Benché la Chiesa abbia giustificato la venerazione delle icone non ne ha stabilito il dogma ; e la domanda del significato dogmatico di questa venerazione rimane l’oggetto di una ricerca teologica. “(Sergej Boulgakov, L’icône et sa veneration, L’Age d’Homme !993. pag. 7-8).
Innanzitutto afferma che l’immagine sacra è nata nel mondo pagano. Quest’ultimo  è convinto non solo che il divino può essere rappresentato con una immagine ma anche che una immagine propria della divinità può essere conosciuta e rappresentata dall’uomo. Questa posizione teorica o pratica  è la radice di ogni forma idolatrica alla quale però l’immagine sacra cristiana riesce a sottrarsi.  Nel contesto cristiano infatti si  afferma da una parte l’inconoscibilità del Divino e dall’altra la sua incarnazione. Partendo da questi due presupposti l’uno affermato teologicamente da tutti gli autori, il secondo storicamente attestato  prima di tutto si evince con estrema chiarezza  che il modo ellenistico di considerare le immagini porta inesorabilmente all’idolatria. In secondo luogo che il problema della possibilità dell’immagine di Cristo scaturisce proprio dalla convinzione espressa a Calcedonia che in Lui sono presenti due nature. Tale problema, senza entrare nella valutazione storica delle prime avvisaglie e in seguito delle lunghe diatribe tra iconoclasti e difensori delle sacre immagini durate più di un secolo , trova la sua precisa formulazione nella opposizione dei due contendenti.
Bulgakov ritiene che gli iconoclasti impostino il problema delle immagini in modo teorico e speculativo mentre gli iconoduli non lo risolvono su questo piano ma rispondono ricorrendo ad argomenti basati solo sulla tradizione cosicché il problema teologico rimane senza una soluzione positiva.  “ La conclusione generale alla quale siamo così arrivati è che i difensori delle icone non hanno riportato una vittoria teologica sui loro avversari.Ciò non ha impedito ad essa di trionfare, poiché il VII concilio ha testimoniato la sua verità, riconosciuta come tale da tutta la Chiesa, pur dopo lunghe lotte ed esitazioni. Proprio come prima del concilio, la venerazione delle icone è entrata nella pratica della Chiesa sotto l’azione dello Spirito Santo, ma senza essere dogmaticamente definita. ”(op. cit. pag. 25)
D’altra parte sottolinea che la teologia latina, che ha avuto un copioso sviluppo nell’età della scolastica, non ha mai affrontato questa questione e quindi non ha saputo dare un contributo costruttivo su tale materia cosicché il problema rimase irrisolto per molti secoli.
Afferma poi che, a suo parere,  il problema, che ha arroventato e contrapposto gli animi nel lungo periodo dell’iconoclasmo,  è rimasto senza risposta perché è stato  mal posto dal punto di vista logico e che quindi per giungere ad una soluzione positiva bisogna innanzitutto correggerne l’impostazione.
“Ben inteso, nella Chiesa mossa dallo Spirito Santo, la verità ha vinto e la venerazione delle icone ha praticamente trionfato. Ciò non significa affatto però che con questa pratica la Chiesa abbia ricevuto la dottrina dogmatica che all’epoca esponevano sia i partigiani che gli avversari e che aveva in effetti gli iconoclasti come origine (…) E, nella fattispecie, non siamo obbligati ad accettare queste opinioni poiché, se si sviluppano logicamente, conducono all’iconoclasmo.” (Sergej Boulgakov, L’icône et sa veneration, op. cit. pag. 28)
05 EliaBenché secondo molti autori il problema impostato in modo teoretico e speculativo non abbia soluzione, egli ritiene che all’interno della dottrina riguardante la Sapienza di Dio ci sia la risposta positiva che gli iconoduli non seppero trovare.
Opporre l’invisibilità di Dio, egli afferma decisamente, e dunque l’impossibilità di raffigurarlo, alla visibilità e quindi all’immagine possibile dell’uomo significa contrapporre una negazione metafisica ed una affermazione cosmologica come facevano sia gli iconoclasti sia gli iconoduli. E ciò è manifestamente scorretto. Da qui parte la sua analisi serrata che lo porta a presentare in modo corretto tre antinomie, una metafisica,  una cosmologica ed una sofiologica.
L’antinomia è una struttura logica nella quale si contrappongono due affermazioni contrarie considerate entrambe vere nel contesto del discorso mentre una legge della logica formale (chiamata anche logica minore) afferma che due proposizioni contrarie (cioè una  proposizione universale affermativa e la sua universale negativa) non possono mai essere entrambe vere.
In Kant l’antinomia è prova certa dell’impossibilità della cosmologia come dottrina metafisica. In Hegel sempre l’antinomia è la molla che fa scattare la sua dialettica triadica costituita da tesi, antitesi e sintesi.
In Bulgakov invece l’antinomia è l’indizio certo dell’assoluta inconoscibilità di Dio in teologia ed anche affermazione che tutte le affermazioni  che riguardano la Divina Economia hanno sempre una connotazione apofatica perché il mistero di Dio, benché si manifesti, rimane sempre al fondo inconoscibile
Dunque è nell’antinomia sofiologica  che si trova la soluzione del problema agitato dagli iconoclasti e quindi la formulazione teorica del fondamento teologico dell’immagine sacra. Infatti l’antinomia tra Sofia increata e Sofia creata spiega il rapporto antinomico tra prototipo ed immagine sacra in modo tale che se ne possono trarre una serie di conseguenze significative.
Nell’ antinomia sofiologica correttamente formulata, perché gli opposti sono sullo stesso piano (cioè le affermazioni si riferiscono a realtà del medesimo tipo), si contrappone la Sofia increata (la Divinità, cioè l’essenza stessa di Dio) a quella creata (la divinità nel mondo al di fuori di Dio stesso)
E’ opportuno però, per l’esatta comprensione dello sviluppo del pensiero di Bulgakov, chiarire e cosa intenda il nostro con i termini Sofia increata e Sofia creata.
Attraverso una appropriata esegesi di tutti i testi scritturistici che riguardano la sapienza divina egli dice “(…) si vede che tutti i testi in questione dimostrano l’esistenza di un principio in Dio, che presiede alla nascita del mondo : Dio lo crea attraverso la sua divinità, attraverso questa Saggezza attraverso la quale egli si rivela eternamente a se stesso.“ (op. cit. pag.45)
Più avanti, sviluppando ulteriormente il suo pensiero sulla essenza del mondo creato, afferma:
“Dio ha creato il mondo attraverso il Verbo e lo Spirito Santo, manifestati  nella Saggezza. In questo senso Egli l’ha creato attraverso la Saggezza e secondo l’immagine della Saggezza. Essa, che è una realtà eterna in Dio, costituisce pure il fondamento della esistenza del mondo creato. Riprendiamo ancora l’affermazione dogmatica : il mondo è creato dal «non essere», a nihilo. Tuttavia, la sua possibilità di esistere e la sua realtà costante non sono senza un certo fondamento. Esso si trova precisamente nella Saggezza di Dio. Ammetterlo, è affermare, sotto questo aspetto, il carattere fondamentalmente divino del mondo, la base del quale è questa identità dei principi della Saggezza in Dio e nel mondo. La Sofia di creatura è ontologicamente identica al suo prototipo, la Saggezza che è in Dio. Il mondo esiste in Dio (…) Esiste per la potenza della Divinità benché sia «fuori» di Dio (…) Quindi il mondo creato non è altra cosa dalla Sofia di creatura, principio dell’essere relativo, in divenire ed unito al non essere del «nulla» …..Pertanto, benché il principio positivo sul quale il mondo è fondato appartenga all’essere di Dio, il mondo in quanto tale mantiene la sua propria esistenza e la sua identità distinte da quelle di Dio…” ( Sergej Bulgakov,, op. cit.  pag. 47 – 48)
Da qui deriva la sua dottrina sofiologica sull’incarnazione. Secondo la prospettiva sofiologica dunque l’incarnazione non è una contraddizione ma ha la sua possibilità di realizzazione proprio nel fatto che la Sapienza o Sofia  increata si unisce con quella creata.
06 MandylionIn questo modo l’incarnazione non è “come un deus ex machina o come un atto costrittivo esercitato su questa essenza (umana n.d.t.) ma al contrario come la piena manifestazione di quest’ultima.”(op. cit. pag. 55).
Con questa espressione  Bulgakov riafferma  un tema molto caro all’Ortodossia : all’immagine di Dio nell’uomo corrisponde l’immagine dell’uomo in Dio. Vale a dire che lo scopo ultimo della creazione è proprio l’incarnazione.
Dice in conclusione il nostro riguardo l’icona “ Una manifestazione speciale dell’antinomia sofiologica generale è l’antinomia dell’icona : Che Dio non sia rappresentabile si trova unito all’affermazione che lo sia, in particolare nella persona del Signore Gesù Cristo, il Dio Uomo. Questa antinomia è alla base stessa del dogma della venerazione dell’icona.” (Sergej Boulgakov, L’icône et sa veneration op. cit. pag. 36)
Dopo aver operato la fondazione teoretica che Dio è raffigurabile nell’immagine sacra, Bulgakov ne deriva alcuni considerazioni  significative che riguardano le sacre immagini. Esse infatti, solo se sono messe in relazione con la vita stessa della Chiesa, che ne favorisce la fioritura,  esprimono tutto il loro significato, la loro funzione ed il loro annuncio.
La tradizione ecclesiale dice infatti che le icone, nell’azione liturgica che le approva e le santifica, diventano, come le parole ed i gesti, simbolo cioè presenza che salva ed invita alla preghiera.
“Secondo la credenza ortodossa, l’icona è il luogo di una presenza di grazia come una epifania di Cristo. (o della Madre di Dio o dei santi; in generale, della persona della quale porta l’immagine) e ciò, allo scopo di pregare.” (Sergej Boulgakov, L’orthodoxie, L’Age d’Homme, 1980, pag. 156)
L’uomo è un essere composto di materia e spirito e non sa cogliere lo spirituale senza passare attraverso il materiale. Come avviene nei santi misteri di Cristo “In modo analogo noi abbiamo un a relazione spirituale e diretta al tempo stesso attraverso le sante icone, nonostante tutta la differenza tra queste e l’eucaristia. Inoltre la venerazione delle icone è fondata non solo sulle figure o gli avvenimenti che esse presentano, ma ancora sulla fede in questa presenza di grazia che la Chiesa dona attraverso la potenza della santificazione delle icone…” (op. cit. pag. 157)
Ma, proprio vivendo la realtà delle funzioni liturgiche, l’icona “ è un atto sacramentale che stabilisce proprio un legame tra il prototipo e l’immagine, tra il raffigurato e la figura. Per mezzo di questa santificazione, l’icona di Cristo diventa il luogo misterioso di un incontro tra l’orante e il Cristo. ” (op. cit. pag 157)
Bulgakov, attraverso la sua dottrina sofiologica, riafferma così in modo personale e suggestivo la visione tradizionale che il concilio di Nicea II ha consacrato ed in particolare il rapporto specifico che intercorre tra la sacra immagine ed il prototipo.
L’icona inoltre  è opera  di un iconografo che è insieme artista e teologo. Non si può dipingere l’icona senza una profonda esperienza della vita della Chiesa e in particolare delle funzioni liturgiche ortodosse nelle quali l’icona stessa prende vita, forza espressiva. Solo cosi testimonia la presenza del Mistero di Dio invisibile ed inconoscibile che si manifesta nella storia dell’uomo. Per questo la tradizione artistica ha scartato ogni espressione allegorica e ogni forma di realismo naturalistico perché il mistero di Dio manifestandosi trasfigura il mondo creato. Per indicare questa trasfigurazione l’iconografo non rappresenta mai le emozioni dei personaggi dipinti, non usa la prospettiva tridimensionale ma quella inversa. Ha invece assunto e conservato un linguaggio simbolico che trasmette una contemplazione mistica che si concretizza non in pensieri astratti ma in immagini. Attraverso  il simbolismo delle figure, dei colori, delle forme, del ritmo delle linee l’artista esprime una “visione e conoscenza di Dio.” (op. cit. pag. 158).
L’icona è al tempo stesso opera artistica ed annuncio teologico. Come opera d’arte è espressione di epoche e scuole artistiche nelle quali però non è espressa primariamente la  sensibilità religiosa di ciascun artista ma il modo con il quale la Chiesa vive la misericordia della Divina Economia.
L’iconografo poi, o pittore di immagini sacre, ripropone tipi che già sono stati approvati e si sono affermati nel volgere dei tempi nello stesso modo in cui il predicatore riferisce  l’esegesi altrui di una pagina evangelica o presenta con parole proprie l’intuizione di un teologo. Oppure presenta immagini che mostrano profondità non ancora esplorate che sono visioni profetiche ed intuizioni mistiche della Divina Economia.
“… l’iconografia creatrice è l’arte più difficile e più rara, che richiede l’unione di due doni che non sono affatto frequenti. E ciò perché per la loro potenza, le loro opere e le loro rivelazioni superano sia la teologia speculativa sia l’arte non religiosa…” (op. cit. pag 159)
Secondo Bulgakov in Russia Rublev e Dionigi, due monaci amici vissuti nel sec. XV, sono un esempio luminoso di iconografia creatrice. L’anima e l’arte della Russia tengono in serbo ancora nuove rivelazioni per proclamare la gloria di Dio.

La rappresentazione della Gloria

Nell’ambito dello sviluppo della teologia russa in Occidente, che si è affermata a Parigi nell’Istituto san Sergio,che è ancora luogo della sua fioritura e del suo dispiegamento in un ambiente ecumenicamente aperto e attento alle esperienze teologiche dell’Occidente, particolarmente interessante è il contributo di Pavel Evdokimov alla teologia dell’icona. Nella sua opera mostra una conoscenza della filosofia e teologia occidentale diversa da quella dei teologi russi dell’inizio del secolo. In questa nuova atmosfera culturale la meditazione sulla tradizione russa acquista accenti nuovi sfruttando anche le ricerche che gli autori cattolici hanno operato in campo biblico e patristico. Si può dire che l’opera di Evdokimov sia una meditazione delle intuizioni dei grandi maestri dell’inizio del secolo, nella determinazione di far risaltare la peculiarità della tradizione russa nell’ambiente culturale e teologico francese.
In questa prospettiva vanno considerate le sue opere che sono da una parte la presentazione dei temi fondamentali dell’ortodossia di tradizione russa al mondo cattolico e protestante e nello stesso tempo un contributo per il dialogo ecumenico. Affrontando il tema dell’icona egli si mantiene su un livello squisitamente teologico interpretando il concetto della bellezza e il significato dell’icona in un contesto profondamente biblico e patristico. La linea sobria del suo pensiero trae argomento e consistenza proprio nel continuo riferimento alla Scrittura e all’opera dei Padri i quali, pur movendosi in un contesto platonico, superano la cultura ellenistica e la trasformano in uno strumento espressivo della rivelazione meditata e vissuta. Se rimane fondamentale la concezione della bellezza come splendore del vero, essa però viene assunta a indicare la manifestazione di Dio Trinità.
Il dogma trinitario esplicita: se il Figlio è la Parola che il Padre pronuncia e che si fa carne, lo Spirito la manifesta, la rende udibile e ce la fa ascoltare nel vangelo, ma lui resta nascosto, misterioso, silenzioso… In rapporto al Verbo, il vangelo dello Spirito santo è visivo, contemplativo.[23]
Se dunque la bellezza è la manifestazione della Trinità, è la luce divina che si dona in se stessa o attraverso le forme di questo mondo, è pur sempre nel Cristo che avviene la pienezza di questa manifestazione, cosicché si può dire che:
La bellezza divina è la comunione assai concreta della natura creata dell’uomo intero con l’increato delle energie divine.[24]
Essa è la gloria di Dio, è il mistero dell’ottavo giorno, ma che è già inizialmente presente nei sacramenti e nell’esperienza dei santi. Si può dunque dire che la luce della creazione, quella del Tabor, della pentecoste, dei sacramenti e della parusia è la medesima luce divina. La strada per incontrarla passa attraverso la Chiesa perché proprio la Chiesa è la preparazione e l’anticipo dei nuovi cieli e della nuova terra, cioè del Regno di Dio che è l’uomo e il cosmo completamente trasformati dalla luce che è Dio che si manifesta e si fa presente. La faccia luminosa di Dio rivolta verso gli uomini è quella del Cristo Trasfigurato:
L’armonia delle verità divine è personalizzata in Cristo, creduto ma anche veduto e contemplato, perché l’umanità deificata del Verbo è quella “fiaccola di vetro” che irradia dalla luce trinitaria. L’epifania, il Tabor, la Risurrezione, la Pentecoste, sono le irruzioni folgorati che si lasciano vedere. Ma in queste rivelazioni è l’Oggetto che determina interamente il soggetto. La luce è l’oggetto della visione e ne è anche l’organo. La Trasfigurazione del Signore, di fatto, era quella degli apostoli, per un momento i loro occhi aperti potevano vedere, al di là della sua Kenosi, la Gloria del Signore.[25]
07 Vergine oranteE l’esperienza vissuta dagli apostoli può essere vissuta nella Chiesa da ogni uomo attraverso la dimensione sensibile dei sacramenti, della liturgia, dell’icona e dell’esperienza vissuta di Dio. L’uomo infatti è chiamato all’esperienza del divino nella sua integrale totalità, non solo lo spirito ma anche il corpo ha l’esperienza delle cose divine. E in questo modo l’icona nel contesto della vita della Chiesa e nella prospettiva della vita religiosa inizia alla visione di Dio nella luce dell’ottavo giorno. L’icona dunque è uno degli elementi, in cui è strutturata la tradizione e vive completamente nel suo ambito ed è incomprensibile al di fuori di essa. In questo senso, “L’icona è uno dei sacramentali, più precisamente quello della presenza personale”[26].
L’iconografia diviene ben presto una parte organica della tradizione e costituisce una vera teologia visuale. Essa sboccia facilmente nel platonismo della patristica orientale, nella sua filosofia della trascendenza perché questa implica una simbolica riconduzione del sensibile alle sue radici celesti. Il simbolo nello spirito dei Padri della Chiesa e secondo la tradizione liturgica contiene in sé la presenza di ciò che simbolizza. Esso adempie la funzione comprensiva del “senso” e nello stesso tempo è ricettacolo espressivo della presenza. La conoscenza simbolica, che per sua natura è sempre indiretta, fa appello alla facoltà contemplativa dello spirito, all’immaginazione evocatrice e invocatrice, al fine di decifrare il senso e di cogliere la presenza, figurata, simbolizzata, ma reale del trascendente. Proprio per la sua funzione liturgica l’icona supera la dimensione estetica e il suo immanentismo:
Essa suscita non l’emozione ma il senso mistico, il mysterium tremendum… la parusia del Trascendente di cui l’icona attesta la presenza. L’artista scompare dietro la tradizione che parla, le icone non sono quasi mai sottoscritte; l’opera d’arte lascia posto a una teofania; ogni spettatore alla ricerca di uno spettacolo, qui si trova fuori posto; l’uomo, colto da una rivelazione folgorante, si prostra in atto di adorazione e di preghiera.[27]
La fusione dell’elemento artistico e della contemplazione mistica inaugura una teologia visiva:
Lo stile ecclesiale filtra ogni visione soggettiva, perché è la Chiesa che vede l’oggetto della fede, i suoi misteri. Se l’architettura sacra del tempio ordina lo spazio, e il Memoriale liturgico ordina il tempo, l’icona fa fare esperienze sull’invisibile, sulla “forma interiore” dell’essere e questa interiorità, ancora una volta, dipende dall’illuminazione, dalla categoria taborica.[28]
Ciò apre la strada a concepire l’icona come via all’unione mistica con Dio, essa diventa un momento dell’ascesi verso l’incontro deificante.
L’icona è una rappresentazione simbolico-ipostatica che invita a trascendere il simbolo, a comunicare all’ipostasi, per partecipare all’indescrivibile. Essa è una via attraverso la quale si deve passare per superarla, non si tratta di sopprimerla, ma di scoprire la sua dimensione trascendente. Essa incontra l’ipostasi e introduce all’esperienza della Presenza spogliata di forme empiriche.[29]
Evdokimov si rifà chiaramente alla teologia del settimo concilio anche se riconosce che essa più che approfondire la rilevanza teologica dell’icona afferma la sua dignità. Ha stabilito il culto dell’icona senza proporre una dottrina elaborata; perciò egli tenta, sulla scorta della tradizione stessa, una elaborazione del fondamento teologico dell’icona stessa.
Egli sottolinea prevalentemente la dimensione liturgica dell’icona come momento rivelativo dell’esperienza della Chiesa e proprio per questo motivo ricerca nella Scrittura e nella Tradizione della Chiesa il significato di questa espressione. La sua comprensione dell’icona è molto vicina alla concezione espressa nel settimo concilio ecumenico, arricchita dalla esperienza e dalla teologia di Gregorio Palamas. Dio che è vita e luce si fa presente in Cristo, inviato dal Padre e manifestato dallo Spirito santo. La Chiesa vive nel Cristo e lo rende presente nel tempo e nello spazio. La coscienza che essa ha di essere radicata nel mistero di Dio viene espressa nel tempo dalle struttura liturgiche che conducono il fedele a sperimentare il mistero di Dio e a essere riempito della sua presenza.
Questa deificazione di tutto l’uomo, spirito e corpo, intelletto e sensibilità passa anche attraverso l’icona, la quale proprio perché è radicata nel mistero della Chiesa esprime in immagini la sua esperienza. In questo senso i Padri della Chiesa, proprio in quanto costruttori della esperienza ecclesiale, sono coloro che determinano il canone iconografico. Il compito dell’artista allora è simile a quello dell’evangelista, quello cioè di esprimere attraverso la propria personalità non un annuncio personale bensì l’esperienza ecclesiale. È per questo che l’iconografo deve immettere la sua capacità artistica dentro la viva corrente della coscienza della Chiesa, fare dilatare la propria coscienza perché batta all’unisono con quella ecclesiale, immergersi sempre più profondamente nel mistero di Dio nella Chiesa e attraverso la sua opera annunciare ciò che la Chiesa vive, sperimenta e vede perché ogni fedele sia aiutato a entrare in comunione con Dio, a essere deificato dalla sua presenza energetica.

Annuncio della fede ed esperienza di spiritualizzazione

Leonida Uspenskij unisce l’esperienza pittorica e la meditazione teologica in una organica chiarificazione di quanto già la tradizione aveva autorevolmente stabilito. Secondo lui l’epoca della controversia iconoclastica ha già sviscerato il problema in tutti i suoi aspetti essenziali e ha tracciato una sicura teologia dell’icona che deve essere intelligentemente custodita e meditata.
Per tale motivo la comprensione teologica dell’icona non può essere effettuata che nella sintesi dei contributi d Giovanni di Damasco, degli atti del secondo concilio di Nicea, delle chiare precisazioni di Teodoro di Studion. Qui la tradizione, sollecitata dalla situazione contingente, messa di fronte all’eresia degli iconoclasti, non ha fatto altro che affermare solennemente ciò che sempre ha vissuto e creduto. L’immagine infatti non è un aspetto secondario del cristianesimo. Dipingere e venerare l’icona significa proclamare il dogma cristologico in tutta la sua estensione e in tutte le sue implicazioni. Questa consapevolezza è stata profondamente recepita e condensata nei testi poetici della prima domenica di quaresima che è memoria del concilio del 787 che è sentito come sigillo di tutti gli altri ed è perciò Trionfo dell’Ortodossia.
Il significato ed il contenuto dell’icona è tutto compreso e con grande efficacia proclamato nel kontakion di questa festa:
Il verbo del Padre, che non ha limiti, si è circoscritto prendendo umana carne nel tuo seno, o madre di Dio; ha riportato al primitivo stato la nostra immagine deturpata e l’ha unita alla bellezza divina. Proclamando la nostra salvezza, noi la esprimiamo con dell’uomo a Dio, la nostra confessione della verità salvifica dell’incarnazione, l’accettazione da parte dell’uomo dell’economia divina e la sua partecipazione all’opera di Dio, e di conseguenza la realizzazione della nostra salvezza.[30]
08 VladimirskayaL’icona è possibile dunque poiché Dio in Cristo ha assunto la natura umana attraverso la Madre di Dio. Il divieto veterotestamentario non è totalmente annullato bensì risignificato in un nuovo contesto. Poiché per essenza Dio è invisibile e inconoscibile ne consegue che è irrappresentabile. È rappresentabile invece la rivelazione personale di Dio in Cristo che opera la salvezza dell’uomo e del cosmo. Perciò quello che l’icona rappresenta è l’umanità di Cristo penetrata dalle energie divine che la trasfigurano e la rendono deiforme. Analogamente l’icona rappresenta la Madre di Dio e i santi nella loro realtà di persone che sono state completamente trasformate dalla grazia, vale a dire spiritualizzate e deificate dalla luce increata (dalle divine energie, attraverso l’opera dello Spirito Santo. L’icona perciò “trasmette attraverso mezzi materiali, visibili agli occhi carnali, la bellezza e la gloria divina”[31].
I Padri infatti dicono continuamente che l’icona è venerabile proprio perché trasmette lo stato deificato del prototipo e porta il suo nome, e nella misura in cui avviene questa trasmissione la grazia propria del prototipo è presente nell’immagine. In questa prospettiva sono vinte alla radice tutte le obiezioni contro le immagini che si sono presentate nel corso della storia e si fondano in ultima analisi sul principio che per sua natura Dio è assoluta trascendenza. L’obiezione è sostenibile e formulabile solo se non si comprende fino in fondo la dimensione teologica dell’icona che i Padri hanno sostenuto, il concilio ha proclamato e i testi liturgici hanno ribadito.
L’icona non rappresenta affatto la Divinità, ella indica la partecipazione dell’uomo alla vita divina.[32]
Realismo e simbolismo vanno tenuti insieme e ben compresi nel loro legame reciproco che è fondato sul mistero del rapporto tra l’umanità e la divinità in Cristo. Questa decisa sottolineatura permette all’Uspenskij di giungere a una comprensione della natura dell’icona che si libera del dualismo platonico sotteso in alcune formulazioni della tradizione che poi i filosofi religiosi hanno ribadito in altro contesto. La sua evoluzione culturale e la sua storia spirituale lo hanno portato a unire icona e teologia senza passare attraverso la filosofia religiosa e lo hanno tenuto al riparo dal suo platonismo. Non esistono due realtà, una spirituale e una materiale, che si corrispondono e nell’icona vengono in contatto tra loro. L’arte iconografica non può che dipingere il mondo visibile che è l’unico rappresentabile, ma lo dipinge non nella sua naturalità e storicità ma nella sua realtà spiritualizzata o deificata che già esiste ma non si è ancora compiutamente espressa e manifestata. L’icona cioè non rappresenta un altro mondo ma questo mondo totalmente trasparente alla gloria divina, alle divine energie, alla luce increata. In questo e solo in questo preciso significato si può dire che l’icona è immagine dell’invisibile proprio perché essa nel visibile contempla l’invisibile cioè lo stato deificato dell’uomo e della natura.
L’icona dunque è l’annuncio della gloria di Dio che illumina e trasforma il mondo creato il cui compito è accettare questa illuminazione lasciandosi deificare da questa trasformazione. La Madre di Dio, a cui è indirizzato il kontakion, con la sua disponibilità e obbedienza ha reso possibile l’apparizione nel mondo di Cristo che la gloria di Dio e perciò è stata deificata. Al mondo creato allora tocca di rendere gloria a Dio con la parola e con l’azione che è sì ascesi personale ma anche rappresentazione della gloria stessa di Dio. Uspenskij giustifica i due significati del termine azione ricorrendo al terzo paragrafo del Sinodikon del trionfo dell’ortodossia il quale proclama:
Memoria eterna a quelli che credono e provano le loro parole con scritti e le loro azioni con rappresentazioni, per la diffusione e l’affermazione della verità attraverso le parole e le immagini.[33]
L’icona dunque non è un elemento secondario della tradizione; è uno degli elementi fondamentali con cui l’uomo realizza il suo compito che consiste nel vivere a maggior gloria di Dio.
Da queste affermazioni derivano importanti conseguenze che vengono sottolineate con chiarezza e vigore e qui sono riportate sinteticamente. Prima di tutto viene recuperato il vero significato dell’insistenza della tradizione sulle icone non fatte da mano umana e di quelle dipinte da san Luca.
L’immagine di Edessa e quelle attribuite a san Luca attestano che Cristo e gli apostoli iniziarono la tradizione iconografica e che quindi la Chiesa trasmette realmente i tratti autentici dei prototipi.
Per la rappresentazione di Cristo, dei santi e degli avvenimenti della storia sacra, la chiesa conserva piamente la realtà storica. Solo la sottomissione alla storia nel modo più concreto può far sì che l’icona diventi per noi un incontro personale nella grazia dello Spirito santo con colui che essa rappresenta.[34]
Se la fedeltà storica è necessaria non è ancora sufficiente perché nella produzione dell’icona si richiede l’esperienza personale e concreta della grazia che permette di trattare i mezzi tecnici in modo tale che essi divengano trasparenti veicoli della gloria di Dio. Solo i santi che hanno sperimentato la trasformazione operata dalla grazia possono rappresentare la partecipazione dell’uomo alla vita divina e secondo l’esperienza realizzata. Poiché però raramente gli iconografi raggiungono la totale perfezione debbono rappresentare le icone conformemente alla tradizione perché nella tradizione essi partecipano all’esperienza dei santi iconografi, all’esperienza vivente della Chiesa.
Da quanto sopra detto deriva che l’icona è per sua natura miracolosa; per il rapporto particolare che c’è tra l’immagine e il prototipo bisogna affermare che c’è una certa presenza del prototipo nella sua immagine e ciò è il fondamento della miracolosità dell’icona. Tutte le immagini sono per loro natura miracolose. Alcune poi sono particolarmente venerate perché hanno espresso esteriormente la loro potenza taumaturgica con segni e prodigi.
Con queste considerazioni viene ribadita l’affermazione dell’unità tra ascesi e rappresentazione iconografica il cui contenuto costituisce una vera direzione spirituale della vita cristiana e della preghiera. L’icona ci mostra l’atteggiamento che noi dobbiamo avere nella nostra preghiera, sia verso Dio, sia nei confronti del mondo che ci circonda, poiché lo scopo dell’icona non è quello di provocare né esaltare in noi un sentimento umano naturale ma quello di orientare verso la trasfigurazione i sentimenti, l’intelligenza e, in una parola, tutta la nostra umanità.
La riflessione sull’icona compiuta dai teologi russi del nostro secolo è un vivacissimo tentativo di riscoprire e meditare il senso profondo della tradizione. In questo consiste il compito specifico della teologia che non è mai pura ricerca intellettuale fine a se stessa, ma ha eminentemente uno scopo pratico. La teologia è riflessione sopra l’esperienza cristiana, sopra la misericordia di Dio che ci incontra e trasforma affinché l’uomo corrisponda con sempre maggiore consapevolezza alla sua vocazione.
Il contributo che questi teologi hanno dato è uno dei modi più significativi con i quali la Chiesa russa fa memoria della propria illuminazione battesimale nel desiderio della propria trasfigurazione ed esprime nel modo migliore il rapporto che la Russia ha con l’icona.

Bibliografia essenziale
M. Alpatov, Le icone russe, Einaudi, Torino, 1976.
P. Galignani, Il mistero e l’immagine, La Casa di Matriona, Milano 1981.
E. Sendler, L’icona immagine dell’invisibile, Edizioni Paoline, Roma 1984.

Note
[1] Questo studio è già stato pubblicato in “Servitium – Quaderni di spiritualità”, Sotto il Monte (BG), n. 55, gennaio-febbraio 1988, pp. 36 – 58 col titolo “Pietro Galignani, L’icona nel pensiero russo contemporaneo”. In questa riedizione ricorretta è stato anche aggiunto il capitolo “La Divina Sofia e l’icona”.
[2] Evgenij Nikolaevic Trubeckoj (1863-1920), fratello minore del filosofo Sergej N. fu fondamentalmente un pensatore politico ma si impegnò anche direttamente nell’attività politica militando nel partito liberale moderato “Rinnovamento pacifico”.
[3] Si veda in particolare l’opera Il senso della vita edita postuma a Berlino nel 1922.
[4] E. N. Trubeckoj, Umozrenie v Kraskach, traduzione italiana Contemplazione nel colore, tre studi sull’icona russa, La Casa di Matriona, Milano, 1977.
[5] E. Trubeckoj, Contemplazione nel colore, op. cit., pp. 36-37.
[6] Ivi, p. 46.
[7] Ivi, p. 85.
[8] Ivi, p. 88-89.
[9] Ivi, p. 91.
[10] Pavel Florenskij (1882-1948?) nacque a Tiplis. Studiò a Mosca nella facoltà di fisica-matematica e in quella storico-filologica. Frequentò poi l’accademia ecclesiastica di Mosca. Dopo l’ordinazione sacerdotale avvenuta nel 1911 conseguì la libera docenza con un lavoro che, ulteriormente rielaborato, divenne La colonna e il fondamento della verità. Dopo la chiusura dell’accademia poté lavorare e pubblicare esclusivamente su argomenti scientifici. Dopo il 1930 non abbiamo più notizie della sua attività scientifica. Si sa che venne rinchiuso in un campo di concentramento, ma dal 1937 mancano notizie sulla sua vita. Pare che sia morto tra il 1948 e il 1949.
[11] P. Florenskij, Le porte regali, Adelphi, Milano, 1977
[12] Ivi, p. 35
[13] Ivi, p. 35
[14] Ivi, p. 42
[15] Ivi, p. 44
[16] Ivi, p. 56
[17] Ivi, p. 57
[18] Ivi, p. 59
[19] Ivi, p. 60
[20] Ivi, p. 94
[21] Ivi, p. 105
[22] Ivi, p. 106
[23] P. Evdokimov, La Teologia della Bellezza, Ed. Paoline, Roma, 1971, p. 13
[24] Ivi, p. 42
[25] Ivi, p. 38
[26] Ivi, p. 212
[27] Ivi, p. 214
[28] Ivi, p. 223
[29] Ivi, p. 272
[30] L. Ouspensky, Théologie de l’icône dans l’Eglise orthodoxe, Du Cerf, Paris 1980, p. 134
[31] Ivi, p. 144
[32] Ivi, p. 147
[33] Ivi, p. 145
[34] Ivi, p. 148